06 settembre 2006

Giacinto e Antonio

Forse ho sbagliato ed è un po’ troppo personale quello che ho scritto qua sotto, per cui se preferite non andate oltre.

Oggi sono stato ad omaggiare il feretro del capitano dei capitani, la colonna, la bandiera, “l’attaccante mascherato (da terzino)”: Giacinto Facchetti.
Sarti, Burgnich, Facchetti, Guarneri, Picchi, Tagnin, Jair, Corso, Mazzola, Peirò, Suarez. Chissà cosa si prova ad essere parte di un mito. Della storia.
Il cortile di Sant’Ambrogio era pieno di gente di tutti i tipi: bambini, distinti manager in giacca, cravatta, auricolare del telefonino e sciarpa e cappellino nerazzurri, signori anziani (in particolare uno, che era dietro di me, che piangeva come una fontana), e un Massimo Moratti che non si è sottratto all’esposizione, lì con sua moglie, entrambi con due occhi così.
Tutti lì, per l’addio a una persona straordinaria a detta di tutti, senza macchia e senza nemici, a cui volevano bene tutti, senza eccezioni. Un uomo per bene.
E tutta quella gente, lì in Sant’Ambrogio (lo so, non ci vuole l’apostrofo, ma a Milano si scrive così), in quel chiostro enorme, ma che sembrava sempre troppo piccolo per contenere tutto l’affetto di chi era venuto a piangere, a dire una preghiera o, semplicemente, a fare un saluto.
E… e ho pensato a mio padre, a quella cappella troppo piccola per contenere tutti, alla gente fuori, alle facce, al dolore, al senso di solitudine e di perdita. Ai suoi ricordi della Grande Inter, di quella vittoria sul Real seguita per radio, di quel dirmi “Io c’ero”. Di quel male che ha portato via, quasi identico, entrambi, quasi alla stessa età. Non so se è la suggestione o se sono i ricordi che si confondono, ma quando recitava la sacra formazione “Sarti, Burgnich, Facchetti…”, su Giacinto si fermava sempre un attimo, come se fosse un nome da assaporare più degli altri: uomo semplice e straordinario allo stesso tempo. Come mio padre.
Sono quelle morti che fanno male anche quando il tempo lenisce le ferite: quelle morti che ti lasciano un senso di vuoto che non si colma mai.
Ecco, probabilmente volevo scrivere qualcosa su Facchetti, ma un certo punto le dita sulla tastiera si sono mosse da sole ed è venuto fuori questo. Ormai è scritto. Scripta manent.
Beh, allora ciao Cipe, e salutami quel signore coi capelli bianchi. È Antonio, mio padre.

L.

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